Riforma del copyright, cosa cambia in pratica per chi carica e condivide contenuti sul web?

I video su YouTube. Gli snippet degli articoli online. Le eccezioni per le startup. Gli obblighi delle grandi piattaforme e quelle dei singoli utenti. Tutte le novità della direttiva votata dall’Europarlamento

La riforma europea del copyright è passata con 348 voti a favore, 274 contro e 36 astenuti. Non sono bastati i pareri degli esperti e 5 milioni di firme su Change.org. La petizione, record assoluto per la piattaforma per partecipazione, è stata sottoscritta soprattutto da tedeschi, francesi e italiani. Ma ora cosa cambierà in concreto?

Nell’immediato futuro nulla perché i Paesi europei hanno due anni per recepire la direttiva. Il testo, a differenza dei regolamenti, come il Gdpr per i dati personali, non diventa legge automaticamente e può subire delle modifiche in fase di implementazione nazionale.

La direttiva dà la linea, ma poi sono i singoli stati a decidere come dar luogo all’applicazione concreta. Oggi i parlamentari del governo (Movimento 5 Stelle e Lega) hanno votato per rigettare il testo così com’era. Ma da qui ai prossimi due anni, con le elezioni europee di maggio a breve, tutto potrebbe cambiare.

Il precedente governo a maggioranza Partito democratico era a favore della riforma. Nel voto all’Europarlamento solo i deputati Renata Briano, Brando Benifei e Daniele Viotti hanno votato contro, cui si aggiungono gli ex Pd Elly Schlein e Sergio Cofferati. Insomma, a seconda del governo che ci metterà mano, il testo potrebbe essere più o meno annacquato nelle sue previsioni.

C’è da dire che forse, a prescindere dal risultato, sarebbe stato auspicabile un regolamento che uniformasse il diritto d’autore in tutti i Paesi europee mentre ora, si tratti dei giganti o di una startup, bisognerà comunque confrontare 27 (28 con il Regno Unito) leggi diverse, più o meno stringenti.

Come è andata a finire con la link tax?
L’articolo 11, diventato nel testo nuovo articolo 15, ha subito alcune modifiche rispetto alla sua prima versione. Prevede di base che gli stessi diritti di sfruttamento riconosciuti a film e musica siano estesi ai giornali per l’uso che viene fatto online dagli information society service providers, in pratica gli aggregatori di news come Google News, ma anche Feedly, Flipboard e tanti altri.

Questo articolo era stato chiamato dagli oppositori link tax perché nella sua prima versione avrebbe comportato che gli aggregatori avrebbero dovuto pagare una licenza d’uso per pubblicare gli estratti degli articoli.

Nell’ultima versione l’eccezione esclude la necessità di una licenzaladdove si tratti di hyperlink, singole parole o brevi estratti. In teoria si potrebbe dire che gli aggregatori che linkano snippet (titolo, immagine e un paio di righe) potrebbero essere esentati. In teoria perché per il modo in cui è scritto il testo è difficile capire quando un estratto è da considerarsi breve (3, 10, 50 parole?) e altri esperti come Innocenzo Genna confermano che nel link non ci potrà essere il titolo ma solo singole parole.

Insomma, la palla passa ai singoli Stati per capire come regolarsi quando la direttiva diventera’ legge nazionale nei prossimi due anni.

Cosa cambia per gli utenti?
La direttiva prevede un’eccezione per l’uso privato non commerciale ma l’utente medio considera il suo profilo social tale. Dipenderà ancora una volta da cosa si intende per privato e non commerciale. Molti dicono che vista la licenza e le condizioni di Facebook, per esempio, qualsiasi cosa venga caricata ha uno scopo commerciale indiretto che avvantaggia il social network e quindi potrebbe non ricadere nell’eccezione.

Si potranno ancora caricare i video su YouTube?
L’articolo 13 (ora 17 nel nuovo testo) prevede che la piattaforma dovrà ottenere una licenza d’uso dai detentori dei diritti (produttori, società come Siae etc) per pubblicare video e musica. Questo coprirà anche l’uso fatto dai suoi utenti.

In pratica se qualcuno carica un video con della musica, non sarà più un problema se quel video non monetizza e se la canzone è già nel database per il quale la piattaforma ha pagato una licenza. Fin qui tutto bene, un pensiero in meno anche per gli utenti forse.

Se invece non è nel database, perché potrebbe essere di un artista indipendente oppure perché la piattaforma non ha ottenuto la licenza, quest’ultima potrebbe essere ritenuta responsabile legalmente. Sarebbe innocente solo se provasse di aver fatto il possibile per ottenere l’autorizzazione, di aver rimosso il contenuto velocemente e di aver fatto il possibile per evitare che fosse caricato nuovamente.

Per fare questa analisi ci vorranno dei filtri. E se non ci sono le licenze, il contenuto non potrà andare online.

Ci sono eccezioni per le startup?
Sono blande e valgono solo per l’articolo 13 e non per il numero 11. Si è esenti dagli obblighi del 13 solo se la società ha meno di 3 anni, un fatturato inferiore a 10 milioni di euro e meno di 5 milioni di utenti. In ogni caso anche le startup dovranno rimuovere i contenuti illegali, come previsto dalla vecchia direttiva.

La beffa
Prima del voto sul testo complessivo gli eurodeputati hanno votato sulla possibilità di poter votare dei singoli emendamenti, cioè modifiche ai singoli articoli. Per esempio decine di parlamentari chiedevano di rimuovere gli articoli 11 e 13 approvando il resto della riforma. In questo modo le previsioni per favorire la giusta retribuzione per artisti e giornalisti sarebbe rimasta, ma sarebbero stati espunti gli articoli più controversi con effetti sulla libertà d’espressione. Il Parlamento in aula, per soli 5 voti, ha deciso di votare direttamente il testo.

Ieri sera però l’eurodeputata Marietje Schaake di Alde ha pubblicato il documento con le correzioni di voto dove si può vedere che ci sarebbe stata la maggioranza per votare i singoli emendamenti. Le correzioni però non annullano il voto, ma servono solo per lo storico delle intenzioni di voto degli eurodeputati. Come mai tutti questi errori? Potrebbe trattarsi di uno sbaglio nel premere il pulsante giusto. Per altri, invece, potrebbe essere un modo per mostrare “delle intenzioni di voto ai propri elettori” ma poi nei fatti facendo il contrario.

Certo, forse sarebbe finita allo stesso modo ma almeno si sarebbe saputo chi ha votato la riforma volendo quei due articoli, e chi l’ha fatto magari per non togliere le parti buone che comunque nel testo ci sono.

Articolo di: Wired.it